lunedì 10 dicembre 2007

Analisi di un opuscolo della Società Torre di Guardia

Il nome divino che durerà per sempre
Analisi di un opuscolo
Prima parte

Nel 1984 la Società Torre di Guardia pubblicò un opuscoletto dal roboante titolo de “Il nome divino che durerà per sempre”. Scopo di questo scritto di 32 pagine era quello di illustrare e rendere ragione della dottrina geovista sul nome di Dio. Onestamente, riteniamo tale pubblicazione un esempio lampante di come i TdG, nel loro argomentare, facciano volentieri a meno delle leggi della logica. Cercheremo di illustrare ciò in queste righe.

L’opuscolo in oggetto si apre con le parole che seguono:

«SIETE persone religione? Se lo siete, allora come molti altri credete in un Essere supremo. E probabilmente tenete in alta considerazione la famosa preghiera rivolta a quell’Essere, insegnata da Gesù ai suoi seguaci e conosciuta col nome di “Padrenostro”. Questa preghiera inizia così: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome.” – Matteo 6:9, versione della CEI
Vi siete mai chiesti perché in questa preghiera la santificazione del nome di Dio viene al primo posto?» [Il nome divino che durerà per sempre, p. 3].

In effetti, c’è da interrogarsi su questo. Prima di tutto, però, c’è da chiedersi che cosa voleva dire Gesù con tale espressione. La risposta, in parte, ci viene fornita dallo stesso testo geovista, nel quale, a pagina 4, viene citato “The Illustrated Bible Dictionary”, volume I, pagina 572. In quest’opera si afferma quanto segue:

«Uno studio della parola ‘nome’ nell’AT [Antico Testamento] rivela il profondo significato che essa ha in ebraico. Il nome non è una semplice etichetta, ma rappresenta la vera personalità di colui al quale appartiene».

Ecco, per gli ebrei il nome di qualcuno non era una semplice etichetta, ma indicava questo qualcuno stesso. Per cui, quando il testo biblico si riferisce al nome di qualcuno, in verità sottintende questo qualcuno stesso. Ciò, del resto, è chiarito dalla TNM quando rende Atti 1,15 come segue: “Ora in quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli e disse (la folla di persone era nell’insieme di circa centoventi).” Il fatto è che lì dove TNM dice “persone”, il testo greco dice “onomaton” (genitivo plurale di “onoma”), vale a dire “nomi”. Ovviamente, memori del succitato passo de “The Illustrated Bible Dictionary”, i bravi traduttori geovisti hanno compreso che con “nomi” qui si intendevano proprio le “persone” che quei 120 nomi indicavano ed hanno tradotto correttamente “persone”.

Da ciò deduciamo che, con l’espressione “Sia santificato il tuo nome”, Gesù voleva dire “Che tu sia santificato” e, visto che Dio è il Santo, "che tu sia santificato” vuole probabilmente significare: “che tu sia riconosciuto quale il Santo”, “che tu sia riconosciuto per ciò che sei”. Non è un caso, allora, che la Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente della Bibbia renda questo passo con “fa' che tutti riconoscano te come sei”.
Bizzarramente, però, i TdG non giungono alle nostre stesse conclusioni, bensì ci stupiscono con la seguente asserzione:

«Tenendo presente tutto questo, è chiaro che è importante conoscere il nome di Dio» [Il nome divino che durerà per sempre, p. 4].

E quale sarebbe il nome di Dio?
Qual è il nome a cui Gesù pensava quando disse: “sia santificato il tuo nome”?
Ora, volendo sorvolare sul senso reale che tale espressione aveva nella bocca di Gesù e nelle orecchie dei suoi uditori originali, un lettore ingenuo potrebbe rispondere candidamente: “Padre”. Infatti, Gesù ha detto: “Padre nostro, sia santificato il tuo nome.” Qui Gesù stava insegnando ai suoi discepoli come dovevano rivolgersi a Dio e lo ha fatto dicendo che questi avrebbero dovuto usare il vocativo “Padre nostro”.
Di questo vocativo, però, i TdG sembrano non accorgersi e tirano dritti per la propria via.

«Qual è il nome di Dio? Fatto sorprendente, la maggioranza delle centinaia di milioni di seguaci delle chiese della cristianità avrebbe probabilmente difficoltà a rispondere a questa domanda. Qualcuno dirà che il nome di Dio è Gesù Cristo. Ma Gesù disse: “Ho reso manifesto il tuo nome agli uomini che mi hai dati dal mondo” (Giovanni 17:6) Stava pregando Dio in cielo, come un figlio parla al padre. (Giovanni 17:1) Il nome che doveva essere “santificato” era quello del suo Padre celeste» [Il nome divino che durerà per sempre, p. 5].

Da che mondo è mondo, quando qualcuno si rivolge al proprio padre lo fa dicendo appunto “padre” o, più affettuosamente, “papà”, “babbo”. Infatti, così si rivolge Gesù al suo ed al nostro Padre celeste. “Padre nostro”, dice Egli pregandolo. “Abbà!” (papà), dice Paolo, ci induce a gridare lo spirito del Figlio di Dio dal profondo dei nostri cuori (Ga 6,4).

Nonostante questo, l’opuscolo in esame continua a tirare dritto per la sua strada:

«Eppure molte Bibbie moderne non contengono questo nome, e nelle chiese lo si sente di rado» [Il nome divino che durerà per sempre, p. 5].

Invero, lo si sente ogni volta che in una di queste chiese viene celebrata la messa e, più in generale, ogni volta che si prega così come Cristo stesso ci ha insegnato a fare. Ma in queste occasioni si chiama il Padre celeste “Padre”, e non è questo (nonostante quanto si dovrebbe dedurre da tutto quello che si è detto sopra) per i TdG il nome con cui ci si deve rivolgere a Dio.

Continua il nostro opuscolo:

«In effetti non potremmo mai conoscere il nome di Dio a meno che il Creatore stesso non ce lo rivelasse. E questo è proprio ciò che ha fatto nel suo Libro, la Sacra Bibbia.
In una famosa occasione, Dio pronunciò il proprio nome, ripetendolo in modo udibile agli orecchi di Mosè. Mosè mise per iscritto il racconto di quell’avvenimento che è stato conservato nella Bibbia fino ai nostri giorni. (Esodo 34:5) Dio perfino scrisse il suo nome col proprio “dito”. Dopo aver dato a Mosè quelli che oggi chiamiamo i Dieci Comandamenti, Dio li mise miracolosamente per iscritto».

Il vero nome di Dio è quindi quello che, traslitterato in caratteri latini, viene reso con YHWH, il famoso Tetragramma. Ma qual è la pronuncia del Tetragramma?
Attenzione, è qui che i dotti autori di questo scritto si superano. A pagina 7, infatti, inseriscono una sorta di approfondimento in cui si evidenziano le difficoltà relative ad una plausibile ricostruzione della reale pronuncia del Tetragramma, concludendo con queste testuali parole:

«E’ quindi evidente che la pronuncia originale del nome di Dio non è conosciuta. E in effetti non è importante. Se lo fosse, Dio stesso avrebbe fatto in modo che giungesse fino a noi».

Ecco, proprio quello che noi avevamo realizzato sin dall’inizio appellandoci al senso reale delle parole di Cristo, lì dove, dal fatto che nella cultura ebraica il nome di qualcosa sta per questo qualcosa stesso, deducevamo che quando le Scritture accennano al “nome” di qualcuno, in realtà, vogliono intendere questo qualcuno in quanto tale e che il Maestro di tutti noi nel dire, ad esempio, “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo.” (Gv 17,6), intendeva dire “Ti ho fatto conoscere agli uomini che mi hai dato dal mondo.”
Se fosse stato così importante, Dio non avrebbe lasciato che la pronuncia del nome con cui si fece conoscere a Mosè andasse perduta.
Nonostante ciò, al termine della succitata scheda di approfondimento troviamo questa emblematica sentenza:

«Quel che conta è usare il nome di Dio secondo la pronuncia convenzionale nella propria lingua».

Concludendo, quindi, il nome con cui Dio si presentò a Mosè è così importante per i seguaci di Cristo (nonostante Cristo non lo usi mai nelle Scritture, nemmeno nella TNM) che il Signore, dopo aver permesso che la sua reale pronuncia andasse perduta, si compiace di tutti coloro che pronuncino il medesimo “storpiandolo” in mille modi diversi, a seconda della loro lingua madre.


Il nome divino che durerà per sempre
Seconda parte

Si è detto sopra che Gesù non usa mai il nome Geova nei Vangeli. Nonostante questo, nello scritto in esame, alle pagine 14 e 15, dopo aver spiegato che gli ebrei dell’epoca di Cristo non pronunciavano mai il nome di Dio, si asserisce quanto segue:

«Gesù avrebbe seguito una simile tradizione non scritturale? Difficilmente! Egli non si trattenne certo dal compiere opere di guarigione di sabato, anche se questo significava infrangere le regole di origine umana istituite dagli ebrei e mettere addirittura a repentaglio la propria vita. (Matteo, 12:9-14) In effetti Gesù definì ipocriti i farisei perché le loro tradizioni andavano oltre l’ispirata Parola di Dio. (Matteo 15:1-9) E’ quindi improbabile che si astenesse dal pronunciare il nome di Dio, soprattutto se si considera che il suo stesso nome, Gesù, significa, “Geova è salvezza”.
Una volta, mentre si trovava in una sinagoga, Gesù si alzò e lesse un brano del rotolo di Isaia. Quel brano corrispondeva all’attuale Isaia 61:1,2, dove il nome di Dio ricorre più di una volta. (Luca 4:16-21) Si sarebbe egli rifiutato di pronunciare il nome divino che aveva sotto gli occhi sostituendolo con “Signore” o “Dio”? Ovviamente no».

Ora, tralasciando la questione che pronunciando Ieshua, la forma ebraica di Gesù, non si pronuncia il nome di Dio (ma, semplicemente, si “rimanda” ad esso per tramite di una sua contrazione), gli autori della nostra pubblicazione accennano al fatto che ogni volta in cui Cristo fece qualcosa di contrario alla Legge, così come la interpretavano gli ebrei suoi contemporanei, Egli andò incontro all’ostilità di almeno parte dei presenti, fino a mettere in pericolo la propria vita. Quindi, se nel leggere il passo scritturale in oggetto, Gesù avesse pronunciato il nome di Dio, probabilmente tra gli astanti si sarebbe levato perlomeno un brusio di disapprovazione (si tenga presente che l’episodio si svolge a Nazaret, la città natale di Cristo, città che sappiamo essergli ostile). Quale fu, invece, la reazione degli ascoltatori? Leggiamola così come ce la descrive Luca stesso:

“Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui”. (Luca 4,20).

Ecco, tutti lo fissano: sono in attesa di quello che il Salvatore dirà a commento di quanto ha letto; nessun segno di ostilità traspare, per il momento, dall’atteggiamento degli astanti. L’ostilità verrà subito dopo, quando Gesù dichiarerà che la profezia di Isaia si riferisce proprio a Lui.
Nel passo letto da Gesù, nel testo ebraico, il Tetragramma appare due volte, se Egli lo avesse pronunciato, invece che sostituirlo con “Signore”, di certo la folla degli astanti non sarebbe rimasta in silenzio. Possiamo pertanto dedurre che anche in questo caso, in cui la TNM mette in bocca a Gesù il nome di Dio (anche se, bisogna sottolinearlo, non sono parole Sue, ma si tratta di una citazione veterotestamentaria), Egli si astenne dal pronunciarlo.
Non sono di questa opinione, come abbiamo visto, i TdG, i quali a pagina 16 scrivono:

«Sarebbe quindi davvero irragionevole pensare che Gesù si astenesse dall’usare il nome di Dio, specialmente quando citava brani delle Scritture Ebraiche che lo contenevano».

E poco sotto, continuano:

«I seguaci di Gesù nel primo secolo usavano il nome di Dio? Gesù aveva comandato loro di fare discepoli persone di tutte le nazioni (Matteo 28:19,20) Molti di quelli a cui dovevano predicare non avevano la minima idea di chi fosse l’Iddio che si era rivelato agli ebrei col nome di Geova. Come avrebbero potuto i cristiani far capire loro chi era il vero Dio?».

Oddio, noi, ingenuamente, a questa domanda potremmo rispondere che, visto che gli apostoli parlavano di un Dio che era anche l’unico Dio, non c’era possibilità di far grosse confusioni, lo dimostra il fatto che quando i missionari “apostati” nei secoli successivi si trovarono a dover evangelizzare le popolazioni non cristiane dell’Europa e del mondo, riuscirono comunque a farsi capire, pur non facendo uso del “vero” nome di Dio.

Agli autori del presente scritto, invece, sfugge questa facile constatazione, e vanno avanti con le loro argomentazioni:

«Come potevano i cristiani fare una netta distinzione tra il vero Dio e i falsi? Solo usando il nome del vero Dio».

Quindi, per i TdG è evidente che i cristiani, prima della grande apostasia (che già si preparava), facevano uso del vero nome di Dio, anche se non si sa come lo pronunciassero, in quanto nel Nuovo Testamento in greco questo nome non compare mai.

Dopo la grande apostasia, però, il vero nome di Dio cadde in disuso, perfino nel Nuovo Testamento, dove in principio (sempre secondo i TdG) c’era, ma poi fu abilmente rimosso ad opera di Satana.

«Col tempo, però, il nome di Dio cominciò ad essere nuovamente usato».

Ci informa il nostro scritto a pagina 17. E continua:

«Nel 1278 esso apparve in latino nell’opera Pugio fidei (Il pugnale della fede), di Raimondo Martini, un domenicano spagnolo».

Ma come, Satana aveva fatto tanta fatica per far dimenticare ai suoi il vero nome di Dio ed ecco che proprio uno dei suoi ministri, un domenicano (!), lo ritira fuori? Anche qui, la logica dei TdG fa evidentemente leva su leggi ignote a noi tutti che non siamo nella “verità”.

L’opuscolo procede per diverse pagine mostrando come il vero nome di Dio, comunque, non fu utilizzato molto di frequente nelle chiese “apostate”, le quali, con alcune eccezioni, non lo usarono nelle loro traduzioni della Bibbia nelle varie lingue moderne.

Alla fine di questo excursus storico, apprendiamo che al nome di Dio è stata però restituita tutta la sua gloria grazie alla TNM. In questa, i traduttori geovisti, non solo lo hanno inserito circa 7000 volte nell’Antico Testamento (lì dove nel testo originale compare il Tetragramma), ma lo hanno “ripristinato” per ben 237 volte anche nel Nuovo Testamento.

Saltando a piè pari gli argomenti pseudo-filologici che i TdG adducono onde giustificare tale “ripristino” (i quali sono stati già ampiamente smontati da altri), giungiamo a pagina 26, dove troviamo scritto:

«[…] traduttori e studiosi della Bibbia compresero che, senza il nome di Dio, è molto difficile capire correttamente certe parti delle scritture Greche Cristiane. Il ripristino del nome di Dio è di grande aiuto per rendere più chiara e comprensibile questa parte della Bibbia ispirata».

Subito sotto, nella stessa pagina, per esemplificare come la “logica” del discorso di alcuni passaggi del Nuovo Testamento divenga più chiara grazie alla “reintroduzione” del vero nome di Dio, viene citato il caso di Romani 10,13.

Vediamo quindi come il brano a cui appartiene il versetto in oggetto viene tradotto nella versione CEI:

“Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso.
Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l'invocano.
Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”. [Rm 10,9-13]

Possiamo riassumere (riducendolo all'osso) il “ragionamento” che soggiace a questo brano di Paolo nel modo che segue:

Chi invoca il Signore si salva.
Il Signore è Gesù.
Chi invoca Gesù (avendolo riconosciuto Signore) si salva.

Mi sembra che, oltre ai seguaci di Gesù, qui si salvi anche la “logica”.

Ecco, invece, come la TNM rende il medesimo brano:

«Poiché se pubblicamente dichiari quella ‘parola della tua bocca’, che Gesù è Signore, ed eserciti fede nel tuo cuore che Dio lo ha destato dai morti, sarai salvato. Poiché col cuore si esercita fede per la giustizia, ma con la bocca si fa pubblica dichiarazione per la salvezza.
Poiché la Scrittura dice: “Chiunque ripone fede in lui non sarà deluso”. Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, poiché sopra tutti è lo stesso Signore, che è ricco verso tutti quelli che lo invocano. Poiché “chiunque invoca il nome di Geova sarà salvato”».

Per i TdG, il “ragionamento” soggiacente a questo testo è quindi questo:

Chi invoca Geova si salva.
Il Signore è Gesù.
Chi invoca Gesù (avendolo riconosciuto Signore) si salva.

Che fine ha fatto qui la logica?
Ecco che il brano di Paolo diventa una semplice giustapposizione di periodi senza alcuna consequenzialità logica e perde ogni senso quel “poiché” (causale) che introduce l'ultima proposizione.
Ora, visto che Romani 10,13 è una citazione di Gioele 3,5 e che nel testo ebraico qui appare il Tetragramma, a rigor di “logica”, ciò che deriva dal brano in oggetto come lo rende la CEI è che Cristo è Dio, mentre così come questo passo viene reso dai TdG la divinità di Cristo svanisce. La fregatura, però, sta nel fatto che nella traduzione geovista non salta solo la divinità di Gesù, ma anche la logica del discorso paolino. Quindi, l'inserimento di "Geova" in questo passo non ha affatto migliorato la comprensibilità del medesimo, ma la ha annullata.

By Trianello - trianello@alice.it

1 commento:

Anonimo ha detto...

si vede che non hai niente da fare caro pretello