martedì 20 novembre 2007

Il massacro della Guyana - Conclusione




Il 14 novembre 1978 Ryan, accompagnato da Ron Javers, un giornalista del San Francisco Chronicle, da un reporter e da due avvocati.
Ma è davvero il paradiso tanto agognato, quello che gli adepti della setta hanno trovato al loro arrivo?
Le testimonianze successive al suicidio collettivo raccontano una storia ai confini dell’orrore: le vittime principali sono i più indifesi, i bambini. La colonia ne conta 276, che vivono in condizioni ai limiti della sopravvivenza. Sono denutriti, separati dai genitori, che possono vedere solo la sera, lavorano dalle 7 di mattina alle sei di sera, con temperature diurne che vanno oltre i 40°; sono vittime di abusi sessuali, picchiati duramente e soggetti alla somministrazione di psicofarmaci. È il reverendo Jones ad occuparsi di questo, quel reverendo Jones che si propone come “padre comunitario”. E che, viceversa, si comporta da onnipotente dio della vita e della morte. Non è un paradiso, ma l’anticamera dell’inferno.

Un inferno che diventa reale e concreto il 16 novembre.
Le voci del viaggio di Ryan sono arrivate nella piccola comunità, e nella mente di Jones scatta qualcosa. Probabilmente sospetta che il viaggio di Ryan possa portare alla luce il segreto che si annida nel paradiso artificiale che ha creato. Il suo carisma, la sua forza, il suo diabolico ascendente possono essere messi in discussione; le condizioni di vita della sua gente possono essere portate alla luce del sole. Come spiegare lo stato di degrado in cui vivono, ammassate, oltre 900 persone? Cosa raccontare ai genitori che stanno venendo a chiedergli ragione del suo operato? Per anni ha lavorato al suo progetto, e ora sente che può svanire, all’improvviso, nel nulla. L’arrivo di Ryan e dei suoi compagni di viaggio è un colpo mortale. Il deputato parla con alcuni aderenti alla setta; ne convince almeno una ventina ad abbandonare la comunità. E la gente che vive nelle baracche mostra immediatamente la sua paura: alcune donne si nascondono, alcune, con coraggio, chiedono di poter ritornare a casa. Il gruppo indaga a tutto campo, e ben presto si rende conto che la situazione è ancor peggiore di quello che immaginavano. I sistemi coercitivi, con punizioni corporali, la mancanza di igiene, di cibo adeguato, i soprusi e le violenze sui bambini: tutto, a poco alla volta, filtra attraverso i racconti delle vittime. Ryan interroga Jones, che spiega a parole spezzate, incoerentemente, la sua filosofia di vita, quella del paradiso, della terra promessa che ha consegnato alla sua gente.

Il 19 novembre il compito di Ryan è finito: ha visto abbastanza. Arrivano i camion, che porteranno il gruppo del deputato e una ventina di persone da Jonestown alla pista di atterraggio. Ed è in questo preciso momento che scoppia la tragedia, con una dinamica così improvvisa da creare problemi nella sua esatta definizione. Un uomo si avvicina a Leo Ryan e lo accoltella. Mark Lane, uno dei due avvocati, lo soccorre, e lo prende per un braccio, lo trascina verso uno dei camion, che parte a tutta velocità verso la pista di decollo. Il camion si arresta, ma gli occupanti non fanno in tempo a scendere. Il servizio d’ordine del campo apre il fuoco, e Leo Ryan si accascia, ferito mortalmente. Bob Brown, l’operatore, cade con il cranio spappolato;poi è la volta di Don Harris, giornalista della NBC; cade Greg Robinson, il giovane e fotografo dell'Examiner di San Francisco, cade Patricia Parks, la figlia della donna che aveva sfidato Jones ostinandosi a voler partire. E’ un massacro. I pochi scampati alla fulminea tragedia corrono nei boschi, e sarà la loro fortuna. Le ombre della sera nascondono agli occhi degli assalitori quel pugno di sopravissuti, mentre l’aereo che doveva riportare indietro Ryan e i suoi amici riesce miracolosamente a decollare.
Nel frattempo una tragedia, ben più spaventosa, si è consumata all’interno del campo. Seguendo gli ordini di Jones, le infermiere hanno iniziato a uccidere, con il cianuro, tutti i bambini del campo. Muoiono tutti, gridando, mentre il veleno viene versato loro in gola con delle siringhe. Cadono come mosche, uomini e donne. Non si ribellano, perché la fede nel loro capo è totale. Ed anche perché alcuni, armati di mitra, vigilano su di loro, pronti ad abbatterli in caso di reazione. Cento,duecento,novecento. Cadono coprendo ogni metro quadro del paradiso che avevano sognato. Cade anche Jones.

«Ci incontreremo altrove», dice, prima di morire fulminato da una pallottola nella tempia. Poco alla volta, gli spari si diradano, fino a cessare del tutto. Sulla giungla un silenzio di morte sovrasta tutto, cancellando anche i suoni della natura.

Lo spettacolo che si apre agli occhi della polizia della Guyana, l’indomani mattina, è orribile. 921 uomini, donne e bambini, giacciono alla rinfusa, come giocattoli rotti. 912 sono i corpi degli aderenti alla setta, poi c’è Ryan, i suoi amici. Immagini che riportano indietro di anni,a quelle tristi e terribili che accolsero i liberatori dei campi di concentramento. Un massacro terribile, spaventoso nella sua illogicità.
Le immagini strazianti del massacro filtrano, arrivano in America, fanno il giro del mondo. Esplodono le polemiche, si parla di strane connivenze e coperture di cui avrebbe usufruito Jones. Dibattiti, talk show, montagne di articoli. Per mesi i sopravvissuti vengono sballottati da una parte e l’altra dell’America, per mesi si cercano le motivazioni del gesto, si analizza la figura del reverendo Jones, si scava nel suo passato. Ma le migliaia di parenti delle vittime si chiudono in un silenzio più efficace delle parole. Lo strazio e il pudore di chi ha perso un parente, un amico, un figlio, vince sulla voglia di protagonismo. E sulla vicenda, a poco a poco, cala il silenzio.



Ma l’interesse degli storici, di alcuni giornalisti, non viene meno.
Un anno dopo escono due testi fondamentali per capire le dinamiche e la storia di Jim Jones .

Si tratta di Guyana: la setta del suicidio, di Marshall Kilduff e Ron Javers, del San Francisco Chronicle, e di Childen of Georgetown, scritto da Wooden K., 1979,edito da Mc Graw Hill, New York.

Val la pena citare, in chiusura, proprio l’incipit di questo libro, che testimonia l’orrore e la sensazione di sgomento di chi ha dovuto occuparsi, anche professionalmente, di questo caso:

«Il 18 novembre 1978 [...] 276 bambini furono uccisi in un genocidio settario che non ha precedenti storici, a Jonestown, in Guyana. Totalmente ignorati [...] e persi nella copertura della stampa nazionale e internazionale sulla tragedia, furono sepolti in tombe comuni senza un'iscrizione, ricoperti di terra da bulldozers, ad Oakland, California [...] i responsabili della sepoltura ricevettero l'ordine di dare all'avvenimento il minimo rilievo possibile. È così che questi bambini, ostaggi insignificanti in vita, sono stati del tutto dimenticati da morti.».

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