SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI PENALE, SENTENZA 6 SETTEMBRE 2007, N. 34200
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Con sentenza 28 settembre 2005 la Corte di appello di Bologna, in riforma della decisione
3 luglio 2002 del Tribunale di Modena che aveva condannato M.M. per il reato di cui all'art.
348 c.p., per avere esercitato, attraverso visite mediche, diagnosi e terapie, l'attività di
medico senza aver conseguito alcuna abilitazione all'esercizio della professione medica,
assolveva il M. dal detto reato perchè il fatto non sussiste.
Rilevava, più in particolare, la Corte che per il periodo corrente tra il gennaio ...omissis... e
l'ottobre ...omissis... tutti i testimoni avevano riferito che il M. non aveva compiuto atti
riconducibili all'esercizio della professione medica.
Relativamente al periodo dal 1993 al 16 gennaio 1998 (data della perquisizione presso lo
studio):
a) coloro cheavevano contattato il M. per assoggettarsi a cure omeopatiche erano
consapevoli che l'imputato non aveva conseguito alcuna laurea in medicina;
b) la sottoposizione alle cure omeopatiche era avvenuta per libera scelta ed, in alcuni casi,
con il contemporaneo ricorso alla medicina tradizionale;
c) non sussisteva la prova certa che l'imputato avesse effettuato diagnosi o eseguito visite;
con tutta probabilità, le annotazioni di patologie erano relative a diagnosi riferite dai clienti;
d) le prescrizioni "terapeutiche" riguardavano prodotti omeopatici di origine naturale innocui
ed inidonei ad interagire con altri farmaci;
e) l'imputato si era limitato a consigliare l'uso esclusivo dei prodotti omeopatici; in un solo
caso aveva sconsigliato l'uso della tachipirina.
2. Ricorre per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna
denunciando violazione dell'art. 348 c.p..
Osserva, più in particolare:
a) l'irrilevanza della libera scelta dei pazienti, considerato il bene protetto dall'art. 348 c.p.;
b) l'esclusivo rilIevo del mancato conseguimento di titoli abilitativi, a prescindere dalla
capacità del M. di effettuare le cure e dall'esito di esse;
c) l'irrilevanza della innocuità dei prodotti prescritti;
d) il rilievo della prescrizione (anche verbale) o della diretta somministrazione di sostanze
specificamente indirizzate all'eliminazione di una malattia o a lenirne i sintomi, comunque
qualificabile come atto di esclusiva competenza del medico, a prescindere dal fatto che la
prescrizione venisse formalizzata in una ricetta;
e) la circostanza che solo il medico può effettuare prescrizioni anche di "medicina
alternativa". il ricorso è fondato.
2. L'impugnazione del Procuratore Generale si riferisce all'esercizio abusivo della professione
medica da parte del M. per il periodo compreso tra il 1993 ed il 16 gennaio 1998, data della
perquisizione a seguito della denuncia del G. perchè - almeno a quel che risulta dal ricorso -
sembrerebbe pacifico, alla stregua di quanto esposto dall'ufficio ricorrente, che per il periodo
successivo, l'attività dell'imputato non si estrinsecò in veri e propri atti di esercizio della
professione medica.
Il difensore dell'imputato, in una memoria depositata in prossimità dell'udienza, ha richiesto
la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, perchè con esso si richiederebbe una
pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, nonostante questa non sia ancora
maturata. Una tesi da disattendere subito giacchè risulta evidente dalla sentenza impugnata
che la perquisizione nello studio del M. ha determinato la cessazione della permanenza,
istaurandosi successivamente un'ulteriore attività peraltro ritenuta irrilevante ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 348 c.p..
Più precisamente, il sezionamento, così operato, dei due periodi di attività, l'uno
antecedente, l'altro susseguente alla perquisizione, ha consentito una pronuncia del tutto
liberatoria da parte della Corte di appello. La devoluzione, poi, di un solo frammento (quello iniziale) dell'attività abusiva, in forza dell'arco temporale oggetto dell'impugnazione del
Pubblico ministero, potrebbe, al più, comportare - se il ricorso venisse accolto - il permanere
della pronuncia di proscioglimento nel merito per la seconda fase (non ancora estinta)
ovvero, se la Corte dovesse annullare la sentenza impugnata nei termini indicati dal Pubblico
ministero, che l'annullamento dovrà disporsi senza rinvio per il periodo considerato per
essere il reato estinto per prescrizione.
3. Ciò posto, sulla base della sentenza qui denunciata risulta evidente l'insussistenza delle
condizioni per il proscioglimento in merito ex art. 129 c.p.p., comma 2, per il periodo di
tempo contestato, proprio nei termini indicati nell'atto di impugnazione del Pubblico
ministero, potendosi richiamare integralmente il contenuto di tali doglianze.
4. Come è noto, l'omeopatia è un metodo di cura consistente nella somministrazione in
minime dosi di sostanze che, se somministrate ad alte dosi ad una persona sana
provocherebbero gli stessi sintomi della malattia che si vuole combattere. Una tale
metodologia, alla cui basa è la cd. "legge della similitudine", secondo cui un determinato
disturbo può essere curato col suo simile comporta la regola che la malattia si può curare (o
prevenire) con ciò che può provocarla. Si tratta, dunque, di un metodo alternativo alla
cd."allopatia", un sistema di cura che sfrutta l'azione dei principi contrari a quelli che hanno
provocato la malattia.
Va avvertito però che non vale ad escludere l'omeopatia dalle professioni mediche la
circostanza per la quale questa attività non sia oggetto di disciplina universitaria o di
successiva professione per la quale è necessaria l'acquisizione di un titolo di Stato,
esplicandosi comunque la detta metodologia in un campo - la cura delle malattie -
corrispondente appunto a quello della medicina, per così dire, ufficiale.
Lo stesso oggetto dell'omeopatia, di fatto, non sembra così diverso da quello della medicina
tradizionale, poichè, pur se attuato con metodi e tecniche da questa non riconosciuti, è
finalizzate alla diagnosi e alla cura delle malattie dell'uomo.
Se a ciò si aggiunge l'intrinseca eccentricità dell'omeopatia rispetto al sapere medico
tradizionale, pare evidente, a fortiori, che l'esercizio di tale attività deve essere subordinato
al controllo, di natura pubblicistica, dell'esame di abilitazione e dell'iscrizione all'albo
professionale e, prima ancora, al conseguimento del titolo accademico della laurea in
medicina.
Come è stato perspicuamente rilevato, infatti, sarebbe paradossale imporre tali oneri a chi
intende curare pazienti dopo essersi formato su testi della scienza medica ufficiale e non
esigerli, invece, per chi voglia svolgere un'attività terapeutica in base a nozioni e metodi
alternativi non riconosciuti dalla comunità scientifica. Una conclusione - quella ora ricordata
- che risulta confermata anche considerando l'indubbia interferenza dell'attività
dell'omeopata con un bene giuridico primario come la salute, che viene tutelata attraverso
un imponente complesso di norme anche di rango costituzionale, attraverso la
predisposizione di strutture pubbliche ad hoc, con la previsione di specifici controlli sui
soggetti che esercitano privatamente l'attività medica.
Questa Corte ha avuto già modo di precisare che integra il reato di abusivo esercizio della
professione medica la condotta di chi effettua diagnosi e rilascia prescrizioni e ricette
sanitarie per prodotti omeopatici perchè tali attività coincidono con un'attività sanitaria che
presuppone, per il legittimo espletamento, il possesso di un valido ed idoneo titolo;
rimarcando che, se i rimedi omeopatici non sono riconosciuti dallo Stato, certamente non sono vietati ma sono rimessi alla libera scelta dell'interessato d'accordo con il suo medico
curante dal quale le ricette devono essere redatte; sempre applicando l'art. 348 c.p., si è
ritenuto, perciò, realizzato il reato in questione quando l'attività non venga svolta da un
esercente la professione medica e si sostanti nella diagnosi e nella prescrizione dei rimedi
suggeriti e delle modalità della loro assunzione (Sez. 6^, 25 febbraio 1999, n. 2652).
Tanto più che numerosi prodotti utilizzati in omeopatia sono oggi iscritti nella farmacopea
ufficiale italiana, atteso che risultano comunemente utilizzati dalla stessa medicina
allopatica.
Peraltro, dal 1992, prima a livello comunitario e poi nazionale, sono state emanate norme
che prevedono la registrazione dei farmaci omeopatici presso il Ministero della Salute,
mentre rigorose direttive stabiliscono i dettami ed i confini per la produzione e il commercio
di tali prodotti nel territorio nazionale.
Il tutto in un quadro interpretativo che - come si vedrà più analiticamente fra poco - ha
annoverato tra le attività di esclusiva competenza dei medici la chiropratica, i agopuntura, i
massaggi terapeutici, l'ipnosi curativa, la fitoterapia, l'idrologia. Ha escluso, invece,
dall'attività medica la misurazione della potenza visiva con prescrizione di lenti a contatto,
l'attivazione di una ginnastica oculare rieducativa mediante apparecchiatura elettronica, la
depilazione con gli aghi, la misurazione della pressione arteriosa non seguita da giudizio
diagnostico, la gestione in un centro tricologico con finalità di miglioramento estetico, la
consulenza dietetica in un centro di rieducazione alimentare, la vendita di erbe con
indicazione della loro modalità di azione, la realizzazione di tatuaggi (cfr. anche Sez. 6^, 30
luglio 2001, n. 29961).
6. La sentenza impugnata ha impropriamente chiamato in causa l'ordinanza costituzionale n.
149 del 1988, quale statuizione legittimante l'esercizio dell'attività in esame da parte di
soggetti non abilitati ad esercitare la professione medica, così equivocando
macroscopicamente circa l'effettiva statuizione contenuta in tale pronuncia (cfr., amplius,
Sez. 6^, 10 ottobre 2003, Bennati).
Nell'occasione la Corte era stata investita, in riferimento agli artt. 10 e 25 Cost., della
questione di legittimità dell'art. 348 c.p., sollevata dal giudice a quo nel corso di un processo
a carico di tre cittadini statunitensi che avevano esercitato in Italia la professione di
"chiropratici" senza essere in possesso della prescritta abilitazione dello Stato, sotto il profilo
che la norma denunciata manca dei necessari riferimenti integrativi, in quanto, da un lato,
gli atti abilitativi rilasciati negli Stati Uniti d'America non sono riconosciuti nella nostra
Repubblica e, dall'altro lato, non esiste nel nostro Stato nè un corso di laurea in chiropratica
nè, conseguentemente, l'omologa abilitazione professionale, per cui non potrebbe applicarsi
la norma penale senza violare l'art. 25 Cost. (l'art. 10 Cost. risultava indicato nel solo
dispositivo dell'ordinanza di rimessione).
La Corte, dopo aver osservato che la fattispecie denunciata punisce soltanto chiunque
eserciti abusivamente una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello
Stato e che, dunque, l'abuso punito dall'art. 348 c.p. consiste proprio nell'esercizio di una
professione, per la quale lo Stato richieda una speciale abilitazione, da parte di chi non
l'abbia conseguita, ritenne la questione manifestamente inammissibile perchè irrilevante; lo
stesso giudice rimettente aveva, infatti, riconosciuto che lo Stato italiano non richiede alcuna
abilitazione per la professione di "chiropratico" che la nostra legge ignora, mentre l'art. 2229
c.c. affida, appunto, alla legge la determinazione delle professioni intellettuali per le quali e
necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi. Stante, dunque, il "disinteresse" della legge
ordinaria, la Corte ne ha inferito che "non ha alcuna rilevanza che la chiropratica possa
essere inquadrata nello schema delle professioni, giacchè, fino a quando lo Stato non riterrà
di disciplinarla e di richiedere per il suo esercizio una speciale abilitazione, si tratta
evidentemente di un lavoro professionale tutelato, ex art. 35 Cost., comma 1, in tutte le sue
forme ed applicazioni, e di una iniziativa privata libera ex art. 41 Cost.", con la conseguenza
che "l'art. 348 c.p. risulta assolutamente inapplicabile perchè il fatto non è preveduto dalla
legge come reato".
Da ciò pare chiaramente emergere - contrariamente da quanto argomentato dalla sentenza
impugnata - che il ricordato "disinteresse" dell'ordinamento italiano per la professione di
"chiropratico" - al pari di quella di "omeopata" - vale se e semprechè l'attività
concretamente esercitata non implichi il compimento di "operazioni" che solo chi è abilitato
all'esercizio della professione medica può lecitamente eseguire.
8. Questa Corte è, del resto, costante nella linea interpretativa in base alla quale l'art. 348
c.p. è norma penale in bianco - una proposizione, peraltro, in parte da rimeditare alla
stregua della sentenza costituzionale n. 199 del 1993, senza che, peraltro ciò possa
comportare decisivi riverberi sui tracciati ermeneutici inesame - che presuppone l'esistenza
di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali
prescrivono una speciale abilitazione dello Stato ed impongano l'iscrizione in uno specifico
albo, in tal modo configurando le cosiddette "professioni protette"; così da trame la
conseguenza che l'eventuale lacuna normativa non può essere colmata dal giudice con la
prescrizione di regole generali o astratte. La norma in esame tutela, quindi, non certo
interessi di tipo "corporativo", ma l'interesse della collettività al regolare svolgimento delle
professioni per le quali sono richieste una speciale abilitazione e la iscrizione nell'albo; con la
conseguenza che la condotta costitutiva dell'abusivo esercizio, deve consistere nel
compimento di uno o più atti riservati in modo esclusivo alla attività professionale (Sez. 6^,
29 novembre 1983, Rosellini). Tanto da far emergere come non sia il nomen della
professione esercitata a designare il tipo di attività come corrispondente a quella esclusiva
del medico ma le concrete operazioni eseguite, a meno che l'attività (ci si riferisce a modelli
di confine con l'esercizio della professione medica) sia di per sè qualificabile come esercizio
di attività esclusiva del medico e pure se, quando la professione è regolamentata dalla
legge, il superamento dei limiti da essa tracciati comporta esercizio abusivo della professione
medica. In un quadro in cui fa da decisivo punto di riferimento il principio espresso dall'art.
32 Cost. in base al quale "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo e interesse della collettività", attraverso una verifica della norma ordinaria
(anche incriminitrace) in chiave costituzionale, secondo una linea ermeneutica, del reato
ormai consolidata nella giurisprudenza del giudice della legittimità delle leggi (cfr., ex
plurimis, la sentenza costituzionale n. 184 del 1986. 9. Più specificamente, in relazione alla
prima tipologia in cui si manifesta la fattispecie di cui all'art. 348 c.p., e sempre con
riferimento all'attività esclusiva del medico, questa Corte ha affermato perciò che l'attività
professionale di optometrista che non poteva essere prevista in occasione della
regolamentazione della professione di ottico non implica necessariamente esercizio della
professione medica; demandando al giudice del merito il compito di verificare se le pratiche
professionali corrispondano ad una mera attività di rilevazione e misurazione strumentale, e
ad una semplice attività di ginnastica oculare - nel qual caso dovrebbero considerarsi solo
ausiliari e funzionali all'espletamento della professione medica e non integranti il reato -
oppure se esse necessariamente comportano nella loro essenziale esecuzione, scelte e
valutazioni di carattere diagnostico, tipiche dell'atto medico (Sez. 6^, 3 aprile 1995,
Schirone). Sulla stessa linea si è affermato, in relazione alla professione medica che si
estrinseca nella capacità di individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura,
nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, che commette
il reato di esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e
consigli, ed appresti le cure al malato; precisandosi che da tale condotta non è esclusa la
psicoterapia, giacchè la professione in parola è caratterizzata dal fine di guarire e non già dai
mezzi scientifici adoperati: onde, qualunque intervento curativo, anche se si concreti
nell'impiego di mezzi non tradizionali o non convenzionali da parte di chi non sia abilitato
all'esercizio, integra il reato previsto dall'art. 348 c.p.: nella fattispecie, i giudici di merito
avevano ritenuto la sussistenza del reato di esercizio abusivo della professione medica a
carico degli operatori di un centro non abilitato ove i pazienti venivano sottoposti, tra l'altro,
a sedute psicoanalitiche (Sez. 2^, 9 febbraio 1995, Avanzini).
Più di recente, ribadendo una giurisprudenza ultraventennale (Sez. 6^, 6 aprile 1982, De
Carolis), si è ritenuto che l'agopuntura, in quanto terapia invasiva che, oltre all'effetto tipico
ipnotico ed anestetico che essa sul paziente, e esposta a tutti i rischi collegati ad un
intervento di tale natura, quali quelli di lesioni gravi causate da invasioni in parti non
appropriate del corpo umano, senza contare il rischio di infezioni per l'uso di "utensili" non
sterilizzati nel rispetto degli standards attualmente previsti e periodicamente verificati dai
servizi sanitari e costituisce esercizio della professione medica (Sez. 6^, 27 marzo 2003,
Carrabba). Ed è interessante notare come mentre, all'epoca in cui fu pronunciata la prima
decisione, l'agopuntura non costituiva materia oggetto di insegnamento nelle università
italiane, allorchè è stata pronunciata la seconda, la facoltà di medicina e chirurgia della
facoltà di Roma "La Sapienza" ha inserito "il bando di attivazione del master di 2^ livello in
agopuntura per l'anno 2003, il cui titolo di ammissione è il diploma di laurea in medicina e
chirurgia ovvero in odontoiatria. Così da far concludere circa l'esercizio della cd. "medicina
alternativa", in rapporto alla fattispecie di reato anche adesso contestata, che l'agopuntura
si esplica mediante atti propri della professione medica, oltre che per la scelta terapeutica
della malattia da curare, anche per i suoi intrinseci metodi applicativi che possono definirsi
"clinici" (così Sez. 6^, 27 marzo 2003 Carrabba).
Tale decisione ha avuto, ancora, cura di ricordare come la giurisprudenza di questa Corte si
sia orientata nel senso che integra il reato di esercizio della professione medica "la condotta
di chi effettua diagnosi e rilascia prescrizioni e ricette sanitarie per prodotti omeopatici
perchè tali attività rientrano nell'esercizio di un'attività sanitaria che presuppone, per il
legittimo espletamento, il possesso di un valido ed idoneo titolo; rimarcando che se i rimedi
omeopatici non sono riconosciuti dallo Stato, certamente non sono vietati ma sono rimessi
alla libera scelta dell'interessato d'accordo con il suo medico curante dal quale le ricette
devono essere redatte; sempre applicando l'art. 348 c.p., si ritenne, perciò realizzato il reato
in questione quando l'attività non venga svolta da un esercente la professione medica e si
sostanzi in un'attività diagnostica e in quella prescrittiva dei rimedi suggeriti e delle modalità
della loro assunzione" (Sez. 6^, 25 febbraio 1999, Cattaneo).
La giurisprudenza di legittimità ha, dunque, recepito la costruzione ermeneutica inaugurata
dalla sentenza costituzionale n. 1999 del 1993, che ha ravvisato nella previsione dell'art.
348 c.p. una fattispecie caratterizzata da autonomia precettiva che la rende autosufficiente
rispetto alla disciplina dei contenuti e dei limiti imposti dai titoli abilitativi. Così superando H
linea interpretativa che ravvisa nella norma adesso ricordata una norma "penale in bianco".
Designando il provvedimento abilitativo non come elemento strutturale della fattispecie
incriminatrice, ma come presupposto che "in negativo condiziona la capacità giuridica del
soggetto in ordine all'oggetto di quella specifica professione, qualificandone la condotta
come abusiva e, per ciò stesso, illecita". Con decisivi riverberi quanto alle professioni cd. di
"confine" con l'attività medica, perchè ciò che designa l'opera dell'interprete è la necessità di
pervenire ad una corretta individuazione della condotta, in modo di verificare se essa abbia il
contenuto di atti tipici della professione medica che, a norma del D.P.R. 5 aprile 1950, n.
221, può essere esercitata da coloro che, oltre ad avere conseguito la laurea e superato i
prescritti esami di abilitazione, risultino iscritti negli appositi albi (così, ancora Sez. 6^, 27
marzo 2003, Carrabba; nonchè, Sez. 6^, 9 febbraio 1995, Avanzino Sez. 6^, 11 maggio
1990, Mancariello, nel senso che, in relazione alla professione medica che si estrinseca
nell'individuare e diagnosticate malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi
anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, commette il reato di esercizio abusivo di
tale professione chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli ed appresti cure al malato).
10. Sotto il secondo profilo, si è ritenuto che commette il reato di abusivo esercizio della
professione di dentista l'odontotecnico che svolga attività riservata al medico nei confronti di
pazienti che si rivolgono a lui, in quanto, in virtù del R.D. 31 maggio 1928, n. 1334, art. 11,
è escluso ogni rapporto diretto fra paziente e odontotecnico, quest'ultimo, essendo
autorizzato "unicamente a costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti dalle
impronte.... fornite da medici-chirurghi.... con le indicazioni del tipo di protesi da eseguire
(art. 11 dell'ora ricordato R.D.: nella specie la Corte ha osservato che correttamente la Corte
di merito aveva ritenuto che l'imputato dovesse rispondere del reato ascrittogli in quanto
aveva:
1) esaminato il ponte di una paziente prescrivendole delle radiografie e poi esprimendo il
suo giudizio al riguardo;
2) visitato un paziente che lamentava dolore ad un dente, facendolo distendere sul lettino,
esaminandogli la bocca ed affermando che erano necessari altri lavori;
3) visitato un paziente, prescritto al medesimo delle radiografie, impegnandosi a stendere
un preventivo;
4) esaminato la bocca di un paziente prescrivendogli radiografie nonchè, all'esito,
l'applicazione di un apparecchio (Sez. 6^, 9 novembre 1992, Cagalli; Sez. 1^, 12 febbraio
1997, De Luca).
Si è ritenuto, ancora, che commette il reato di esercizio abusivo della professione medica (o
paramedica) il biologo che sia pure preposto a un laboratorio di analisi, effettui un prelievo
di sangue venoso a fine di analisi; precisandosi che tale intervento, pur se appartenente alla
ordinaria amministrazione nella pratica medica, ove non eseguito da soggetti
professionalmente preparati e secondo precise tecniche e metodologie, è idoneo a ledere
l'integrità fisica o addirittura a mettere a repentaglio la salute della persona su cui esso si
compie, ed è di esclusiva pertinenza della professione medica o di quelle professioni
paramediche, come quelle esercitate dagli infermieri professionali o dalle ostetriche, per le
quali la relativa abilitazione deriva da specifiche previsioni di legge; aggiungendosi che se è
vero che la L. 24 maggio 1967, n. 396, art. 3, comma 2, recante "Ordinamento della
professione di biologo", consente ai biologi iscritti nell'albo attività ulteriori rispetto a quelle
tipicamente elencate nel comma 1 di detto articolo, tale disposizione prevede espressamente
anche che simili ulteriori attività siano attribuite alla competenza dei biologi da leggi o
regolamenti, e nessuna fonte normativa, primaria o regolamentare, abilita i biologi ad
effettuare prelievi di sangue finalizzati all'analisi (Sez. 6^, 6 dicembre 1996, Manzi).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condotta protrattasi fino al 16
gennaio 1998 perchè relativamente a tale periodo il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2007.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2007.